16 ottobre 2009

4. Prova di coraggio


La casa dove sono nato venne edificata nella periferia sud di Perdasdefogu, fu una delle prime ad essere costruite e lentamente come una chioccia richiamò intorno a se altri pulcini in costruzione. Quasi sempre erano concepite secondo una progettualità spontanea derivante dal bisogno. Quasi tutte non erano intonacate e come ebbi conferma in anni successivi avevano i “ferri” sporgenti sul solaio, in attesa di ricevere prima o poi un altro piano. Mi ricordo bene il vicinato di Pissetaccu, ero innamorato stracotto di Marietta P. una mia coetanea che abitava poco distante, per cui attendevo all’angolo della sua casa che passasse il banditore comunale “Peistrottus” per vederla e sognare un futuro con lei. Lei puntuale accorreva e si apprestava ad ascoltare il bando pubblico, che Peistrottus declamava a voce alta e sempre preceduto da una serie di suoni di cornetta d’ottone. Intonava ad alta voce :“averti su strangiu…” Non ricordo niente dei bandi ma ricordo i sorrisi della ragazzina che sembravano solo per me. Marietta non ha mai saputo delle mie giovani passioni o forse ha fatto finta di niente come talvolta fanno le donne. Ora non è importante ma allora era fondamentale. Io quasi giornalmente frequentavo la sua casa, con una scusa o con l’altra, per incontrare i fratelli o per rendermi utile in qualche commissione. La madre che io ricordo vedova, non perdeva occasione per darmi qualche delizioso dolcetto di sua produzione in ricompensa. Non era facile dichiarare una ragazza, ci voleva coraggio, ma il coraggio dove si trovava? A parole ero coraggioso, ma quando ero in sua presenza era tutto diverso, diventavo timido e introverso, chiuso e muto come una tomba. Cercavo una soluzione a questo mio problema, ma non mi sentivo di confidarmi con nessuno. Se avessi avuto un fratello più grande forse avrei trovato il modo di confidarmi, ne avevo due più giovani e non avevano i miei dilemmi. Come sempre c’era la banda, forse si poteva tentare a condizione di non fare intuire la mia necessità di divenire coraggioso. Solita riunione pomeridiana in zona “Funtanedda” e mia grande attività per convogliare i ragionamenti di tutti sul coraggio. Erano coraggiosi i Carabinieri o i Banditi che si davano conflitto tra loro in quegli anni di Sardegna? Uno era coraggioso se compariva in un manifestino di cattura come Grazianeddu Mesina appiccicato con la sua banda sui muri innanzi al Bar Depau nello “Stradone” di Foghesu? Si andava all’oratorio e nelle nostre orecchie rimbalzavano le urla mimate dagli insegnanti di catechismo sui martiri straziati dai leoni nel Colosseo che non avevamo mai visto ma immaginato tante volte. Il coraggio, mi serviva il coraggio! Mi proposi di verificare fino a che punto eravamo coraggiosi. Bisognava impegnarsi a superare le prove di coraggio come faceva “Tiger Jack” ed anche “Capitan Miki” nelle loro avventure da noi lette e rilette fino all’usura dei giornaletti religiosamente custoditi nel forziere del tesoro (una vecchia cassa di munizioni accuratamente nascosta in una fenditura dentro al fortino). Tutti erano d’accordo, bisognava individuare la prova e ovviamente superarla. Si stabilì per alzata di mano che bisognava entrare nel vecchio cimitero, calarsi nell’ossario attraverso un vecchio portone che ormai non chiudeva più la cappella e che era posizionato quale scivolo nella cripta sotterranea. Fino a quel punto la cosa era semplice, divenne più complessa quando fu votato di entrare da soli nel buio della sera, prendere in mano un teschio, posizionarlo all’esterno del muro di cinta e accendere tre lumini di cui uno sopra il teschio. Macabro quanto mai, ma coerente con le nostre intenzioni, avrebbe dimostrato se eravamo veramente coraggiosi. Vi erano tanti ostacoli da superare, uno dei tanti era come fare ad uscire di casa la sera tardi di nascosto. In quegli anni se un adulto qualsiasi vedeva un bambino attardarsi o sperso, solitamente c’era l’invito a rientrare dritto dritto a casa sua talvolta accompagnando l’esortazione con un calcione nel sedere o uno schiaffone a mano aperta. Mai sentito lamentele da parte dei nostri genitori. Perdasdefogu godeva da poco tempo il beneficio della pubblica illuminazione, poche lampadine a bandiera ondeggianti al vento e ancor più diradate, per cui gli spostamenti nella semioscurità erano alquanto facilitati. La maggior parte della banda me compreso superò la prova senza problemi nell’arco di circa tre o quattro notti. Io che ero tra gli ultimi, dovetti prepararmi meticolosamente, dovevo imparare a convivere con il buio, cosa non difficile causa la scarsa illuminazione, ma improvvisamente la fobia del buio mi agguantò per cui le sere precedenti accendevo steariche e lumini in ogni parte della casa con gran disperazione di mia madre. Io accendevo e lei spegneva. Anche mio padre Peppino amava la luce a tal punto che dopo una ennesima discussione con mia madre Amelia, si risolse ad illuminare la cucina con tanti lumini e steariche quasi a far giorno. In tale circostanza venne alla sera a casa dei miei genitori una giovane maestrina di Escalaplano per concordare l’affitto di una stanza, vista la vicinanza delle Scuole Elementari. L’insegnante prontamente, assunse nella circostanza un’aria di contrizione formulando senza indugio le sue sentite condoglianze ai presenti, che per dovere di cortesia e non contrariarla si risolsero di tacere sul fatto che non vi erano defunti recenti da onorare con tante candele accese. Malgrado tutto la mia prova fu semplice, mi ero tranquillizzato perché la notte della mia furtiva uscita da casa non era molto oscura, nessun problema per scendere e risalire dall’ossario con il teschio, solo che quei maledetti fiammiferi famigliari non si accendevano neanche a pagare. Mi risolsi sporgendomi dall’alto del muro cimiteriale in mezzo ai cipressi a chiedere ad un militare di rientro dalla libera uscita la cortesia di prestarmi un accendino. Lo zippo a benzina del soldato scattò fedelmente e i miei lumicini spettrali finalmente furono accesi. Il soldato parve trovare tutta la scena particolarmente gustosa giacché avveniva tra il sollazzo dei miei compagni di banda spettatori in un luogo a dir poco inusuale. Quanto fatto nel cimitero fu esaltante ma non mi servì a niente! Il mio problema persisteva e a quei tempi non fu mai superato, rimasi timido in fatto di rapporti con il gentil sesso per molto tempo a seguire. La mia adorata Marietta col trascorrere del tempo fu lentamente dimenticata. La mia banda e il suo capo “Fisietto” avevano preso gusto alle prove di coraggio, molte erano troppo stupide per essere descritte oppure cattive quali provocare la morte di un vecchio cane o sopprimere qualche gattino. Di una mi è particolarmente rimasta memoria per come ebbe svolgimento. La nostra cultura infantile era intrisa di riferimenti alla conquista del West, così tra pellicole viste e riviste al cinema paesano di “Scoscia” in via Roma e il solito eroico fumetto Tex Willer ci venne in mente di mangiare un serpente. Tutti avevamo avuto a che fare con su “colovru”, sempre la cosa si era risolta con la fuga della serpe o con la sua morte a seguito di sassate o legnate ma nessuno aveva mai provato a mangiarla. La scelta della prova fu approvata con mille dubbi, avevamo visto troppe volte che nel lontano West i serpenti erano velenosi, dalla nostra sapevamo che in Sardegna o meglio a Perdasdefogu non c’erano serpenti a sonagli, ma potevamo fidarci o saremmo morti tra mille sofferenze? Come al solito, non c’era posto per i dubbi, decisa la prova bisognava attuarla! Pronti via… Una serpe d’acqua fu catturata senza difficoltà, venne deciso di farla fritta in padella per cui saltarono fuori tutti gli occorrenti. Alla serpe fu tagliata la testa e fu sepolta nella terra a testa in giù insieme alla sua pelle. Fatto un fuocherello, cosa semplice e rapida si diede corso alla cottura. Le nostre esperienze erano varie, avevamo cucinato in precedenza qualche trota pescata ad “Abbafrida”, anguille di “Iscramoris” , qualche pollastro razziato nelle campagne e il classico coniglio selvatico che era abbastanza frequente nelle nostre “picchettate”. Non ci volle molto, il serpente fu fritto, chi avrebbe mangiato per primo? Tra noi subito nacque una contesa per stabilire chi avrebbe osato rischiare di morire avvelenato. La morte ci spaventava e ci affascinava, a quei tempi si sentiva parlare spesso di morte, per cause naturali o per altro, c’era il male oscuro e quello che si portava via i bambini, noi stessi fummo vaccinati con due taglietti sul braccio per proteggerci dalla morte. Ma in questo caso chi doveva rischiare? La soluzione al quesito arrivò insieme a “Maligintu”.C’era nell’aria un buon odore di frittura. Sul luogo era giunto “Maligintu”, notoriamente molto coraggioso che non si perdeva in chiacchiere: il soggetto giusto! Ultimo arrivato, non era al corrente di aver in padella un serpente. In principio gli fu fatto credere che avevamo cucinato la classica anguilla, ma al momento in cui lui si apprestava a mangiare, la nostra coscienza di giovani incoscienti ci fece confessare che non si trattava di pesce ma di serpente. Ricordo bene il sorrisetto beffardo con cui ci scrutò uno ad uno dicendo “Volete convincermi che non è anguilla per non farmi partecipare al pranzetto!”. Parlare e mangiare fu la stessa cosa! Masticò rapidamente ed inghiotti. Eravamo impietriti, aveva mangiato e non era morto. “Chi non mangia con me non è un uomo!”. Zitti zitti come soldatini mangiammo anche noi un pezzetto di “colovru” fritto in padella e rimanemmo vivi per molto tempo a seguire. Mia nonna Agatina buonanima mi diceva sempre“ciò che non strozza ingrassa”. Saggia donna aveva proprio ragione, a guardar oggi sulla tv satellitare ciò che mangiano alcuni popoli orientali, i nostri formaggi con i vermi o i “sizzicorrus” sono cosucce da niente… Prova di coraggio superata!

7 commenti:

  1. Grazie Walter, oltre alla malinconia pensando al mio vissuto di Perdas... non mi sono mai divertita così tanto leggendo un LIBRO!!!
    Sei un genio, hai saputo raccontere, con ironia e semplicità una storia FANTASTICA, Complimenti
    Demi Dettori.

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  2. Sono molto dispiaciuto che sia andato via da Perdas, a Perdas purtroppo c'è grande necessità di uomini dinamici e coraggiosi.Vorrei vederti presto tornare.
    Buon natale e felice anno nuovo a te e famiglia da parte della mia. Gianni Cabitza

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  3. S'Argidda, Piss'e Taccu, Funtana 'e su Putzu, sa buttega de Zia Amelia, il nostro cane Kira... i luoghi dell'infanzia.
    Che nostalgia...
    Marco M.

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  4. Caro Gianni, intanto grazie per i graditi auguri...credo di essere stato dinamico ma "coraggioso"? A Perdas ci sono tantissime persone che hanno ancora voglia di lottare e di mettersi in discussione, io le stimo più di quanto a volte non mi riesca di manifestare loro il mio apprezzamento... a volte si è coraggiosi decidendo di rimanere piuttosto che andar via.

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  5. É una storia fantastica, raccontata in un modo meraviglioso.Perchè non ne fate una recita in sardo, sarebbe molto divertente.Un saluto dalla germania Marcello O.

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  6. L'angolo della poesia dedicata a perdas,
    da un amico.

    NOTTI di Perdas

    Occhi di stelle
    affacciati sulla mia notte.
    Estremi e nodi fissi
    della trama opalescente
    della via lattea.
    Suoni estivi di esseri
    e perenni voli notturni
    di grigi vampiri
    vanamente protesi
    verso volute indistinte.
    Lento scorrere di auto
    rare e avviluppate
    in curvature e clotoidi.
    Ripetuti andirivieni indefessi
    di esistenze trascinate
    senza meta.
    Immobili lanterne di luce fioca
    nell’oscuro migrare di notti insonni

    perdas 23/07/2009
    un saluto a te e famiglia

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  7. Sr renata senis17/7/10 14:42

    Grazie Walter, non so se mi conosci, sono sr Renata, per i foghesini, franca salia, sono andata via da Perdas nel 69; ora sono a Tempio pausania, abbiamo tre anni di differenza; le cose che hai raccontato mi hanno riportato ai miei anni di adolescente proprio a perdas. Complimenti perchè hai saputo riportarmi al mio passato con ricordi belli e meno belli, ma senz'altro con tanta nostalgia della mia foghesu. Ciao,

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