16 ottobre 2009

3. Capre e botte



In ogni famiglia di Perdasdefogu c’erano molti bambini piccoli, non come adesso, la seconda guerra mondiale era ancora vicina nel tempo e il Poligono militare era presente da qualche anno con tante sue novità anche economiche. Benessere e famiglie numerose portavano vanto al paese. Spesso i piccoli neonati foghesini ricevevano in dono una capretta per il latte. Talvolta era il regalo di un compleanno o altra ricorrenza religiosa per Santa Barbara o Santo Isidoro. Le capre dei bambini venivano affidate ad un pastore che provvedeva a farle pascolare tutte insieme nelle campagne prossime al paese. Tutti i giorni al pomeriggio verso le sedici, il gregge rientrava all’ovile di “Cungiau de Is Morus” , pronto per la mungitura che rapidamente veniva fatta dal pastore. Eravamo fortunati a nascere in un paese che voleva diventare più bello, più florido, più moderno senza rinunciare alla sua naturale e selvaggia ruvidezza. A quel tempo avevo otto anni e correva l’anno sessantaquattro, frequentavo la quarta elementare e possedevo una capra che mi regalava il latte che tanto mi piaceva. La mia capretta si chiamava “Pitorrina”, bianca e nera con due corna appena rivoltate all’esterno. Non ho mai capito come facesse ma certe volte ho pensato che avesse il fiuto di un cane, mi sentiva a distanza e quando avvertiva la mia presenza incominciava a belare in modo insistente in un modo particolare che ancora oggi saprei riconoscerla tra milioni di capre, se fosse viva. A giorni alterni, andavo insieme al mio amico e compagno di scuola “Alduccio” a prendere il latte che la mia capra produceva. Un giorno si e l’altro no, perché un giorno la produzione di Pitorrina era per me e il successivo per il pastore che custodiva le capre dei bambini. Era l’economia spicciola locale che funzionava perfettamente senza ricevute fiscali o altro, bastava la parola. Il latte mi veniva consegnato in un secchiello di alluminio che mia madre mi dava sempre lindo e lucente con il suo coperchio leggermente ammaccato ma sempre a perfetta chiusura. Naturalmente alla stessa ora convergevano altri bambini da tutti i vicinati, anche loro si presentavano con i loro contenitori per asportare il latte delle loro capre. Eravamo in tanti, tutti più o meno sommariamente vestiti, qualcuno senza scarpe, con i capelli taglio stile “Umberto I”, vocianti e vogliosi di azzuffarci. Proprio così, sentivamo dentro una voglia matta di provocarci reciprocamente, senza cattiveria, solo per una mera questione di confronto e contatto fisico. Ognuno apparteneva ad un vicinato, il mio era “Pizz’e Taccu”, c’era “Prassa e’ Cresia”, “Biginau e Susu”, “Santu Serbestianu” e molti altri. In ogni vicinato spesso c’era una piccola banda di ragazzini, che all’uscita si scuola si spostava in base al tempo meteorologico e all’orario della giornata nelle strade, nelle piazzette o nelle campagne di “Foghesu”. Una banda raccoglieva solitamente bambini maschi dai quattro anni ai tredici e si aggregava in forme più o meno spontanee in base parentale, per cui ad un gruppo facevano parte quelli dello specifico rione o anche quelli acquisiti attraverso linee familiari di nomignolo, “Sciamanica”, “Fangotti”, “Moleri”, “Pillalla”, “Bruvura”, “Ficchiu” e così di seguito secondo la consuetudine di Perdas di attribuire un nomignolo alle famiglie. Serviva a riconoscere le persone le une dalle altre in un ristretto ambiente locale in cui ai bambini si imponevano spesso i nomi dei nonni spesso ancora viventi. Ogni banda aveva i suoi spazi di manovra, e solitamente vigilava i propri territori attraverso una presenza costante. Per andare dal punto A al punto C del paese, bisognava talvolta attraversare il punto B, come in una strategia bellica bisognava tenere alleanze o fare compromessi. Naturalmente invadere uno spazio estraneo da soli significava rischiare di essere provocato e quindi coinvolto in una zuffa. La storia comune a tutti i miei coetanei era questa: si faceva a botte quasi con cadenza quotidiana e se per caso tornavi a casa lacero e contuso ricevevi l’ennesima “surra” da parte di mamma, babbo o altro fratello più grande. Ho sempre pensato che questo comportamento fosse una ingiustizia. Andava a finire che prendevi botte comunque, tanto valeva distribuirne a destra e a manca! Altri tempi e forse altri insegnamenti, ben lontani da quelli attuali. Alle ore sedici di uno dei giorni previsti per la mungitura, oltre alla eccitazione degli animali che avvertivano la presenza dei padroncini, vi era l’eccitazione di noi turbolenti ragazzini. Era come mettere il fuoco vicino alla benzina, una parola di troppo, uno sfotto oppure un preciso riferimento alle virtù di sorelle o mamme facevano scaturire la sfida con la conseguente lotta corpo a corpo. La scarsa conoscenza della storia romana antica era maestra frequente dei nostri scontri in cui si mischiava lotta greco-romana a forme di lotta spontanea come sa “istrumpa”. Se venivi provocato o se provocavi finiva sempre allo stesso modo, un cerchio di decine di scalmanati ragazzini urlanti con al centro due o tre contendenti che tra spintoni pugni morsi e minacce se le davano di santa ragione. C’era sempre un vincitore e un vinto, ma la vittoria era effimera, durava solo fino al successivo scontro. Solitamente si confrontavano i rappresentanti delle rispettive bande perché più robusti o più scaltri e agili ma poi come sempre c’era un parapiglia generale per cui come nelle risse del west si finiva tutti per dare e prendere botte in mezzo ad una bolgia impazzita. All’improvviso senza alcun segnale concordato tutto finiva, subentrava un silenzio irreale, anche le capre non belavano, le cicale sembrava non sapessero più fare il loro mestiere. Ci si guardava intorno, qualche maglietta strappata, qualche gonfiore di troppo, graffi a volontà per tutti, se andava bene non c’erano dentini rotti e tutto sembrava tornare a posto. Ognuno si rassettava o aiutava i compagni a ricomporsi, tutto rientrava nella normalità giornaliera. Poi si prendeva il proprio secchiello, messo accuratamente da parte, con una foglia di leccio ognuno ripeteva golosamente ancora una volta la schiumatura della panna naturale che si formava sulla superficie del latte dopo la mungitura. Durante i nostri combattimenti poteva capitare che qualche secchiello si rovesciasse o che il contenuto dello stesso per altre ragioni fosse scarso. Nessun problema! Amici e nemici di comune intesa ripristinavano i livelli del latte perso, per cui potevi ricevere il latte proprio da colui con cui ti eri azzuffato in precedenza. Non dovevi aspettarti ringraziamenti o altro se donavi un poco del tuo latte, dare e ricevere non erano catalogabili perché alla fin fine ognuno aggiungeva un po’ di acqua per mettere a posto i quantitativi mancanti. Si poteva rientrare a casa. Se il latte diventava troppo diluito, per qualcuno erano rimproveri o qualche scapaccione in casa. Per noi ragazzini era normale non far caso a queste “pinnicche” ci saremmo senz’altro rifatti in un'altra circostanza. Altro giorno altra battaglia!

1 commento:

  1. Bella Walter, hai risvegliato i miei ricordi d'infanzia, mai dimenticati; si, tziu Pettianu Emontisi su mannalissargiu, anche io avevo la mia capretta Piroddeddu, che prativamente mi stava sempre attaccata, tant'è vero che mie sorelle mi chiamavano Petar (da Heidi) per l'amore che provavo per quest'animale fiero e dall'incredibile intelligenza. Certo non ho dimenticato su stangigeddu di alluminio sempre lucente, da dove bevevo sa spuma del latte con le foglie di corbezzolo. Io sono assai più piccolo di te, ma i ricordi della nostra amata e indimenticata Foghesu, alla fine sono molto simili. Grazie, è tutto molto bello. Aldo Cabitza de Prass'e Cresia

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