16 ottobre 2009

9. La scoperta di Eprik Eprik


Dalla scuola elementare allo “stradone” c’era poca distanza, ma molto dislivello in quota. Rapidamente dal cucuzzolo ove ai tempi del fascismo era stata edificata la grande costruzione scolastica arrivavi al Bar Melis, dove svernavano spesso tanti giovani e anziani tra partite a carte interminabili e qualche decoroso biliardino. A poca distanza c’era l’edicola di “Ominigheddu” altra fonte di ispirazione per me bambino di quasi nove anni. Ci andavo abbastanza spesso, mi piaceva acquistare giornalini e quando potevo collezionavo “L’isola del tesoro” a dispense settimanali, se non avevo denaro, mi veniva permesso di sfogliare comunque tutto quello che volevo. Non vi erano molte riviste o giornali, rare le pubblicazioni dell’ultima ora, con l’eccezione di qualche quotidiano, ma per lo standard di Foghesu era moltissimo. Con mia infinita sorpresa avevo scoperto che molti adulti non sapevano leggere anche se qualcuno sapeva scrivere il suo nome. Fortunatamente non era il caso dei miei genitori, mio padre specialmente scriveva con una calligrafia ordinata e facilmente leggibile. Feci la scoperta sugli adulti che non sapevano scrivere un tardo pomeriggio, in occasione dei “Is lilloris” a pasquetta. Tutte le famiglie facevano quella che oggi viene detta “gita fuori porta”, si andava a trascorrere una giornata all’aperto, condendo il tutto con funzioni religiose e tante cose buone da mangiare in compagnia di amici e parenti. Si formavano tanti gruppetti di persone più o meno imparentate tra loro che prontamente allestivano tavoli e tavolini traboccanti di cibarie assortite. Molti fuochi venivano accesi e ancor più spiedi giravano lentamente con carni di tante varietà. Il vino buono scorreva come l’acqua. Nessuno rimaneva da parte, c’era molta comunella tra tutti. Mi ero avvicinato ad un gruppo numeroso di persone che erano sedute intorno ad un grande fuoco, che veniva ravvivato spesso per far luce, c’erano molti adulti maschi e femmine, giravano bottiglie di vino rosso e “filueferru” una acquavite locale molto apprezzata. Al centro vidi un uomo di circa quaranta anni che aveva un piccolo libricino, da cui pareva leggere qualcosa, ogni tanto lo sfogliava e raccontava una storia che sembrava essere molto avvincente vista l’attenzione che tutti ponevano. Dopo un po’ terminò il suo racconto tra applausi e apprezzamenti vari, ma prima di andarsi a sedere diede disponibile il libricino ad un’altra persona che prendendo il suo posto esprimendosi in sardo in questo modo “nel mio libricino c’è questa storia, ve la leggerò e se non ci credete, potete leggerla voi stessi ma una volta letta la storia cambierà e tutto ricomincerà com’è vero che domani il sole prenderà il posto della luna che tra poco vedrete!” Compresi al volo che la storia era la stessa, ma venivano aggiunti particolari e personaggi nuovi, anche le situazioni venivano modificate. Era la stessa storia ma diventava un’altra grazie alla presunta lettura di chi “leggeva” il libricino. Ero stupefatto, non era possibile leggere un libro capovolto, allora sentii qualcuno commentare la situazione e ridere sguaiatamente, chi raccontava non sapeva leggere, ma con fantasia fingeva di leggere e per lui non cambiava alcunché se il testo era diritto o rovescio. Alla fine il racconto parve ancora più avvincente e gli applausi furono a scena aperta! Un'altra persona prese il suo posto e la storia ricominciò uguale ma diversa. Mi interessai alla cosa, ero curioso di sapere come mai molti adulti non sapessero leggere. Le risposte furono abbastanza comprensibili e chiare, poca frequenza scolastica o addirittura nessuna frequenza avevano determinato questo analfabetismo adulto. Fu per me molto plausibile, ma per qualche tempo rimasi affascinato dal potere magico di quel libretto dove ognuno poteva leggerci storie meravigliose persino senza saper leggere. Le storie che mi piaceva ascoltare di più erano quelle che raccontava zio “Piccummariu”, non credo le inventasse per me o per i suoi numerosi nipoti, credo proprio fossero vere e apprezzavo molto come le raccontava, senza mai perdere il filo e dandoci sempre spiegazioni sul perché e sul percome. Ci raccontava molte storie, ne ricordo ancora qualcuna malgrado gli anni, quella della “Locomotiva Gigante” che correva tra la Germania e la lontana Cina, quella del “Popolo che adorava la Gomma” e infine la mia preferita: “La scoperta di Eprik Eprik”. Lo zio Piccummariu era preciso come un orologio, alle quindici in punto, seduto quasi sull’uscio, sotto un pergolato, chi c’era c’era…incominciava il suo racconto. Io come tanti altri bambini ero un assiduo frequentatore. Era stato volontario in Africa, combattente della prima ora in Abissinia, spedizione guerresca italiana decisa nel trentacinque. In quelle terre lontane per motivi sanitari era vietato ai militi intrattenersi con le bellezze locali. Zio Piccummariu ci narrava di uomini neri come i negri della bandiera sarda e di ragazze bellissime e dolci più del miele. Con lui conoscemmo i nomi esotici di villaggi sperduti, le scorrerie di guerrieri assettati di sangue, i morti ammazzati a migliaia, i tucul fatti di terra , le zagaglie acuminate, i tamburi di guerra e le frecce avvelenate. Ci pareva ingiusto che i nostri soldati così valorosi non potessero trescare con le ragazze color cioccolata. Ci fu subito chiaro che ogni militare più o meno di nascosto aveva una o due domestiche tuttofare. In certi villaggi dell’entroterra etiopico, ogni cinquanta giorni un uomo poteva affittare una ragazza e tenerla quanto voleva, naturalmente doveva mantenerla con vitto e alloggio. Poi la rimandava a casa sua con un regalo se bene avesse servito. Si poteva scegliere la ragazza con queste condizioni, l’uomo doveva essere in simpatia alla ragazza, doveva farle un regalo e doveva fare un regalo alla madre della stessa. Zio Piccummariu, era un robusto giovane, in uniforme tropicale, calzato e ben nutrito, per di più comandato di vigilanza in uno di quei villaggi. Ci diceva che le ragazze giravano seminude, ma non erano spudorate. Non ci appariva molto chiaro il tutto. Vide una bellissima ragazza seminuda, tredicenne, le sorrise contraccambiato e dopo aver rovistato nel suo zainetto militare, trovò uno specchio. Era un gran bel regalo. Per non far torti lo divise in due parti uno lo donò alla ragazza e l’altro lo diede alla madre che trionfante lo alzo verso il cielo per mostrare a tutti il prezioso bene appena ricevuto. “Eprik, Eprik” Specchio, specchio. L’affare fu concluso come si usava, un abbraccio e un sorso di una bevanda cremosa a base di latte, leggermente alcolica. Eprik Eprik, fu il nomignolo affettuoso che rimase appiccicato alla ragazza. Rimase con zio Piccummariu per molti anni, imparò alla perfezione l’italiano, aveva appreso l’arte di fare anche “is culurgionis”, preparava “su casagedu” era come raccontava “meglio di una moglie, una amante meravigliosa”.. Era fedele ed anche intelligente, imparò a scrivere e far di conto, non faceva niente che dispiacesse a Piccumariu. Trascorsero anni che furono certamente spensierati, poi finì l’avventura d’Africa e Piccummariu dopo qualche periodo rientrò a Foghesu. Eprik Eprik “per me, non è poi così lontana…” così affermava con voce emozionata. Su questo rientro e sulle sorti della bella Eprik Eprik , il racconto sorvolava, non erano dettagli indispensabili, ma io come al solito avevo un tarlo che mi rodeva e che per qualche ragione non mi dava pace. Mi feci convinto che l’avesse portata a Perdas e che lei condividesse la nostra vita di paese. Feci i miei calcoli per stabilire l’età di Eprik Eprik e a torto o a ragione incominciai così a scrutare sistematicamente tutte le donne di carnagione scura o anche semplicemente abbronzate che vi erano a Perdas. Se molte di loro avessero avuto sentore che io ero alla ricerca dell’amante esotica di zio Piccummariu si sarebbero fatte mille e mille risate. Una volta vidi una donna, alta, mora, bella, aveva tutte le carte in regola per essere lei, crollò tutto quando la udii parlare in napoletano verace, aveva un ragazzo che studiava in seconda media ed era sposata con un tecnico della Vitroselenia. Non era lei. Per quanto mi sforzassi non incontrai mai quella Eprik Eprik. Peccato questa era proprio una gran bella storia d’amore.

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