16 ottobre 2009

10. Cavalli e cavallette


Quando è nato Danilo, mio terzo fratello era il sessantaquattro, fui io a scegliere il nome, aveva un non so che di bohemienne, credo averci azzeccato, tra tutti i miei fratelli è l’unico ad avere un estro particolare per qualsiasi genere di arte. E’ suscettibile, ma generoso, un po’ Don Chisciotte un po’ Salvador Dalì, fantasioso in tutte le cose che fa, sempre che gli sia garbo di farle. Mi sentivo gratificato quando mi chiedevano del nuovo fratellino, dicevo che era nato molto grande. Al primo anno era talmente roseo e rubicondo che poteva far la pubblicità alla Plasmon. Di pari passo al bell’aspetto sviluppava un caratterino tutto pepe. Aveva a malapena compiuto i quattro anni, che bastava contrariarlo per vederlo sparire a giornate intere. Talvolta, prendeva una valigetta di cartone, vi infilava un pacco di pasta e un pacco di zucchero, prelevati dall’emporio di mia madre e come un fulmine di piombava puntualmente a casa di nonna Agata, dove era sempre ben accolto. Il sessantaquattro me lo ricordo in special modo per via delle cavallette. Nel periodo estivo, le campagne di Foghesu assumevano un colore giallastro, chiazzato di variegate sfumature tendenti al marrone immerse in una calura per me estremamente piacevole. L’estate era la mia stagione preferita, niente scuola, molto tempo libero con gli amici, scorrerie negli orti, cadeva il mio compleanno e potevo esplorare a piacimento il territorio di Perdasdefogu. C’era sempre qualcosa da fare, mi piaceva acchiappare “pisigous” che opportunamente legavo in coppia per tirare un piccolo carretto in ferula , si trattava del cerambice della quercia, facile da incontrare, prendere con un filo d’erba fatto a cappio qualche sonnolenta lucertola oppure con la fionda andare a caccia di “pibissius” piccole cavallette estremamente mobili e salterine . Tutti questi animaletti erano presenti nella fauna locale in quantità come dire regolare, ad essi si accompagnavano, ragni, farfalle, cicale, mosche, api, vespe, mantidi e tutto ciò che tutti conosciamo, come sempre ne troppi ne pochi. Ma un mattino, recatomi alla postazione militare di Radiosonda vicino a “Runcu su Mirali” nella zona che da verso “Marteddu” vidi le cavallette a milioni di milioni. Non erano di grandi dimensioni, sembravano esser partorite dal terreno. Ne avevo sentito parlare in chiesa, era una delle piaghe d’Egitto. Disperato, pensai che se erano presenti a Foghesu, il Padreterno era arrabbiato con noi. Ci eravamo comportati male con i continentali? Come qualche volta ci rimproverava Don Mura il prete? Avevo giusto nove anni e per varie ragioni, mi ero volontariamente allontanato dall’ oratorio. Anche io avevo contribuito a far giungere questa punizione divina? Questi pensieri negativi mi fecero sentire colpevole, ma i turbamenti durarono poco. Osservavo incuriosito quelle innumerevoli zampette che ritmicamente spingevano verso sud-ovest la massa bulicante. Davanti ai miei occhi stupiti di bambino, il tappeto vivo che si muoveva stava divorando voracemente tutto ciò che sembrava commestibile per un insetto. La mia presenza non pareva infastidirle come invece sarebbe accaduto fossero state in piccolissimo numero. Decisi di fare alcuni esperimenti. Se ponevo nel loro cammino qualche ostacolo, loro parevano non considerarlo, si ammucchiavano le une sulle altre fino ad arrampicarsi per passare oltre. Non valutavano, come sempre accade la possibilità di aggirare l’ostacolo. Il che mi fece pensare di creare una piccola barriera di fuoco. Tutti gli animali temono il fuoco, lo sanno tutti. Le mie tasche contenevano come sempre un coltellino, fiammiferi, sale, spago. Il focherello fu acceso e con sgomento vidi che il comportamento non cambiava, le cavallette si buttavano sul fuoco, strato su strato, a morire carbonizzate per permettere alle compagne di camminare oltre il fuoco. Erano tante piccole emule di Muzio Scevola, non avevano paura delle braci accese. Riuscirono a spegnere il piccolo fuoco e continuarono imperterrite la loro marcia. Perché non volavano? Normalmente lo facevano. Avevano ali e tutto il resto, ma parevano come istupidite, sembrava non possedessero una volontà individuale. Marciavano compatte verso la morte certa, kamikaze a sei zampe. Scoprii in seguito che volavano, altro che se volavano, mi avrebbero potuto dare lezione quando volevano. Erano le micidiali locuste che potevano oscurare il cielo e devastare la terra. Cavallette e cavalli, nomi simili per animali diversi. Sempre in quella estate andavo a piedi a “Tueri”, percorrendo la strada provinciale non asfaltata che portava al terreno dei miei nonni. Mi fermavo a bere alla sorgente di “Sa peddi e cani” e poi un’altra tirata verso Tueri, fantasticando scontri di guerrieri sardi contro i soldati romani alla vista del nuraghe seminascostro tra la vegetazione. Mi sarebbe piaciuto andare a Tueri con un passaggio in macchina, mi sarei accontentato di un carro a buoi, ma non passava nessuno, il traffico era sempre scarsissimo, quasi nullo. Se avessi avuto un cavallo come l’aveva Capitan Miki, mi sarei divertito alla grande. I cavalli erano meglio delle macchine, potevano passare dove non c’erano strade, potevi persino parlargli e come Zorro ordinargli di farsi trovare in un certo posto. Quanto mi sarebbe piaciuto avere un cavallo tutto mio o anche solo poterlo cavalcare. Qualche volta ero salito su un asino o su un cavallo, ma da passeggero non da cavaliere, venivo semplicemente trasportato come si trasporta un sacco di patate! Non sapevo che il destino da sempre una occasione a tutti. A Tueri, nel terreno dei miei nonni, sul confine della parte alta c’era un grande albero di fichi neri ed un grande noce. Sotto al fico era stata costruita una grande vasca che si riempiva con il filo d’acqua quasi invisibile di una cannetta che usciva dalla parete di roccia sovrastante. In aderenza c’era quasi sempre un vecchio cavallo baio di proprietà di “Ziu Stevuni” il fratello di nonno Vittorio. Come tutti sapevano, specie io, Ziu Stevuni era geloso delle sue cose, per cui ero sempre guardingo, se la prendeva con me per ogni non nulla. Se perdeva un oggetto o qualcosa girava male, dopo una sequela di frasi più o meno astiose, era il mio turno. Almeno questa era la mia impressione. Mi tenevo quindi a distanza di sicurezza, qualche volta mi aveva anche picchiato con grande riprovazione da parte di mia madre Amelia. Ma il cavallo era la mia calamita! Salivo sul fico e tenendomi bene aggrappato ad un grosso ramo mi divertivo a toccare con i piedi scalzi la groppa e la criniera del cavallo. Il cavallo sopportava paziente le mie incursioni sempre più audaci. Io ero piccolo di statura e pesavo forse neanche quaranta chili, uno scherzo per una bestia abituata ad essere caricata con bisacce di cinquanta e passa chili cadauna. Poi un giorno, così facendo, mi successe di cadere letteralmente sul dorso del cavallo, essendomi sfuggita la presa del ramo. Ci fu uno strattone, il cavallo scartò e si liberò dalla legatura fittizia con cui si legano i cavalli. Con me in groppa teso e irrigidito dalla paura, lentamente si mosse e in un surreale silenzio di cicale e grilli onnipresenti, si avviò per la strada percorsa e ripercorsa tutti i giorni che recava a Perdasdefogu. La mia tensione non accennava a diminuire, sentivo la paura di cadere dal cavallo, il calore della bestia sotto di me in pantaloncini corti, il timore di ciò che mi avrebbe fatto Zio Stevuni, il fatto che non solo non controllavo l’animale ma sembrava accentuare la velocità e dal passo cambio al trotto veloce. Mi tenevo come una cozza si tiene al suo scoglio. Nei pressi della “Madonnina” avrei voluto lanciarmi giù ma non lo feci, velocità e altezza dal terreno mi fecero desistere. Che strizza! Velocemente arrivammo in paese, io ben ancorato alla criniera feci una bella entrata, schiena ritta a salutare e a mantener fiero lo sguardo. La strizza era in aumento. Il cavallo, svoltò davanti alla falegnameria Cabitza, allora attiva, superò la casa di Faustino “Stangiau” e come d’abitudine girò a sinistra in via Roma, pochi metri ancora, prima di fermarsi davanti a casa di ziu Stevuni e di zia Niccola. Sul muro c’era un anello di metallo. Quello era il posto preciso ove mi ritrovai cavallerizzo in erba su un cavallo preso “a prestito”. Non osavo scendere, per paura di essere calpestato dagli zoccoli, ma la paura di veder giungere ziu Stevuni, mi attizzò spintaneamente il poco coraggio. Prima con mia tronfia superbia mi feci ammirare dai ragazzini di quel vicinato, incurante di alcuni adulti che vedendomi, fecero battute salaci su me e sul cavallo! Difficile per loro far convivere asini e cavalli… Smontai in un balzo e per sfida con me stesso riprovai a salire in groppa, semplice come bere un bicchier d’acqua… Quella stagione estiva, mi vide cavalcare il cavallo altre due o tre volte. Avevo imparato a dargli dei comandi e l’equino sembrava apprezzare le cose buone che gli davo da mangiare, tutto andava per il meglio tranne che ziu Stevuni era arrabbiato a morte con me, non solo doveva rientrare a piedi da Tueri ma non poteva portare niente dalla campagna. Meditava vendetta. Ne avevo fatta una di troppo! Inutile dire che stetti a notevole distanza per molto tempo a seguire da ziu Stevuni e da sua moglie visto che anche lei non era troppo tenera con me. Ben sapevo, per averle già provate in altre circostanze, come si sarebbero concluse le loro ritorsioni ai miei danni. Il tempo avrebbe spianato tutto.

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