16 ottobre 2009

7. Lavori bene eseguiti


Mio padre aveva scelto sua moglie in vicinato, come si usava ai suoi tempi, ma i suoi genitori non erano d’accordo sulla scelta, non ne ho mai capito il motivo, ma questo mi ha rubato per tanto tempo due nonni. Tutti avevano quattro nonni, io ne avevo due. Ogni mio tentativo di capire si infrangeva in un divieto che diceva “quandosaraigrandecapirai”. Certe volte, di nascosto andavo a spiare le attività giornaliere dei miei nonni paterni, Giovanni e Doloretta. Facevano le cose che normalmente riempivano le giornate di tutti gli altri nonni a Perdasdefogu. La casa dei nonni materni che io frequentavo abitualmente, era quasi dirimpettaia a quella dei nonni paterni ed io potevo vedere i miei cugini e cugine scorrazzare nella corte allungata davanti alla modesta casa in cui io non potevo entrare. Qualche volta, armatomi di coraggio o per pura sfida, mi presentavo al cospetto di nonna Doloretta, ma lei arcigna senza esitare mi scacciava. Ero molto turbato e meditavo grandi vendette perché pagavo colpe non mie. Per dispetto una sera, invece di rientrare a casa, mi avvicinai alla corte, anche il cane con abbaiava, forse si era abituato alla mia presenza. Con fare sistematico incominciai a demolire il muretto a secco che fungeva da recinzione. Odiavo quel muretto a secco e tutto ciò che rappresentava, la demolizione andò avanti a lungo e un bel tratto fu smontato nel più rigoroso silenzio notturno. L’indomani, all’uscita di scuola volevo ammirare la mia opera distruttrice per bearmi della mia vendetta infantile, ma con gran delusione il muretto era stato riparato e ricostruito meglio di prima. Vidi mia nonna Doloretta che senza proferir parola mi mostrò una pietra colta al momento, scoppiare fragorosamente a ridere. Fu da me contraccambiata, ma non parlammo. Un giorno mi resi conto che in casa dei miei nonni non vi era nessuno e sgattaiolai all’interno, la mia ridotta statura mi fece gran servizio. Ero saltato dentro da una finestrella scordata aperta. I locali che rapidamente visitai erano piccoli e poco luminosi, ma molto puliti e arredati con frugalità. Profumavano di proibito, per cui aspirai profondamente quell’aria e mi riempii gli occhi di ciò che per i grandi non dovevo vedere. Era uno dei miei grandi segreti, lo feci altre tre o quattro volte senza mai venire scoperto. Per quanto possa apparire strano mi sentivo molto soddisfatto da queste incursioni mi pareva aver vinto tante piccole battaglie. Una volta ne sono convinto, qualcuno della cuginanza mi vide accedere quatto quatto, ma non ci furono conseguenze di sorta. Qualche anno dopo, con la morte di nonno Giovanni le cose cambiarono a vantaggio di tutti, ci fu una sorta di pace non dichiarata, per cui ci fu una specie di avvicinamento tra famiglie con il ritrovamento di una qualche normalità parentale. Il tutto avvenne mentre io quattordicenne studiavo a Cagliari. Non faceva per me la grande città, non che non fosse interessante ai miei occhi, ma mi sentivo un po’ sperso. Eri tra tanta gente, ma non conoscendo nessuno mi sentivo solo e provavo disagio fisico. L’unica cosa che mi piaceva veramente era il viaggio in corriera per Cagliari. Ho sempre apprezzato quel modo di viaggiare, anche perché non mi è mai piaciuto guidare, preferisco essere trasportato. In occasione di questi viaggi mi capitava di fare qualche commissione. Dovevo portare qualcosa a Cagliari oppure acquistare qualcosa da mandare in paese per qualche parente o conoscente. Questo genere di lavoretti mi veniva compensato con qualche piccola somma in denaro. Un giorno mi fu chiesto, come quasi sempre accadeva, di consegnare alla stazione delle corriere Satas di Cagliari un borsone. Presi il borsone e lo depositai in fondo al pullman. Consegna effettuata regolarmente…tranne che per il fatto che il borsone colava letteralmente di vino rosso e che il contenuto era a me sconosciuto fino a quel momento. Solitamente occupavo uno dei posti a sedere nella parte anteriore. Anche io come tutti mi lamentavo del puzzo alcolico che si sentiva nel tragitto finale del viaggio, abbiamo detto peste e corna di quel cretino che trasportava vino. Il cretino ero io. Quel fatto, che mi creò molto imbarazzo quando venni individuato, mi ha successivamente condizionato nell’accettare a scatola chiusa molte cose. Tutto sembra nella vita arrivare al pettine, anche il nodo più piccolo. Una sera, in occasione di una licenza militare, mi recai a trovare nonna Doloretta, era di poche parole e con fare risoluto, mi chiese dei miei progetti per il futuro. Così parlando del più e del meno, le dissi che al mio rientro a Verona dove prestavo servizio, avrei acquistato un autovettura. Lei mi guardò e con tono arguto mi disse : ”avrei dovuto pagarti subito il lavoro che una notte hai fatto per me, meglio provvedere subito…” Stavo per replicare qualcosa imbarazzato quando mi ritrovai tra le mani un rotolo di banconote da diecimila lire legate strette come un mazzo di asparagi. Ne fui sorpreso ma per niente dispiaciuto, la freccia sempre in negativo delle mie ristrette finanze era decisamente puntante al top. Un altro piccolo lavoretto che feci a “Iscramoris” è presente nei miei ricordi. Avrei dovuto con la supervisione di mio nonno calarmi in un pozzo asciutto con un cestino per rimuovere un po’ di pietre presenti sul fondo. Non avendo paura del buio e non essendoci alcun problema di claustrofobia accettai volentieri il lavoro in cambio di una paghetta concordata. Una sorella vedova di mia madre, possedeva in tale località quasi sul confine tra Escalaplano e Perdas un grande vigneto. Mio nonno Vittorio, aiutava la figlia nelle incombenze agricole tra le quali spiccava la vendemmia. Nella vigna c’era un pozzo di tipo sardo, profondo circa quattro o cinque metri, non vi ho mai visto acqua malgrado la notevole vicinanza con il rio Flumineddu. Un anno, andai al vigneto insieme a mia madre e ad altri parenti per dare una aiuto nella vendemmia, volevo rendermi utile (mah!). Il pozzo come al solito mi attirava, ancor più quando sentii un guaito dal fondo. Si sentiva la presenza di un cagnetto che vi era caduto chissà come. Mosso da compassione, anche perché al tempo i cani mi piacevano, senza esitare, con una fune mi sono calato nel pozzo armato di un piccolo cesto. Nel buio, il cane mi ringraziò subito per le mie buone intenzioni, mi morse più volte immediatamente. La mia reazione fu altrettanto rapida, lo presi ripetutamente a calci e veloce come “Nembo Kid” mi aggrappai alla fune portandomi fuori dal pozzo. Avevo deciso seduta stante che meritava di morire! Fu una decisione che durò lo spazio di qualche ora, il cane che all’inizio guaiva, prese a rantolare e ansimare, mi toccò dentro e mi calai nuovamente al salvataggio. Lo portai fuori più morto che vivo. Venne da me battezzato “Dik”, piccolo cane color grigio-marrone di razza incerta ma sicuramente morditore. Ad esser precisi, aveva compreso la lezione e ben si guardava dal mordermi, a volte in compenso mordeva mio fratello e gli incauti che puntualmente cercavano di carezzarlo. Aveva una grande abilità nella caccia, inseguiva qualsiasi selvatico gli capitasse a tiro. Ciò lo rese particolarmente desiderato tra i miei conoscenti, lo scambiai più volte con figurine, trappole per tordi ed altre cose da bambini scoprendo che puntuale ritornava da me. Dik era un bel soggetto, nei miei confronti stava sempre a distanza di sicurezza, mai più vicino di due metri, ma in sempre in mia compagnia. L’ultima volta che lo vidi fu quando lo diedi una volta per tutte ad un tal zio Pilia, che per qualche settimana ogni tanto ci mandava dei conigli selvatici catturati da Dik. Gran lavoratore e morsicatore infame. A modo suo faceva bene il suo mestiere. Sempre mio nonno talvolta mi commissionava di “strigiolare” le botti in cui si sarebbe conservato il vino nuovo. Io, armato di un bel pezzo di sughero e di una grossa spazzola entravo nella botte da una piccola apertura frontale e alla luce di una candela cercavo di bonificare la botte rimovendo le tracce delle vinificazioni risalenti al passato. “Mi raccomando, fai un buon lavoro in caso contrario il vino va a male…” . Sapevo fare bene quel lavoro, l’avevo fatto altre volte e puntuale ero stato pagato. Ma quella volta gli impegni chiamavano, il mio amico Alduccio mi attendeva a casa sua nel pomeriggio, era troppo importante andare al “Rio Fradis” per pescare piccole tartarughe. Mi risolsi a subappaltare la pulitura della botte a mio cugino Mauro, che promise ma non esegui perché anche lui a sua volta trovò più facile obbligare un suo fratello piccolo ad entrare nella botte ma senza riuscire a convincerlo ad eseguire il lavoro. Morale, la botte non fu pulita, anzi la bagnammo all’interno la sera tardi simulandone l’avvenuta pulizia. Non rammento se fu riempita e se il vino quell’anno si guastò, ricordo bene di essere stato “trillato” da mio nonno con una buona dose di schiaffoni. Naturalmente pagai mio cugino Mauro allo stesso modo per il lavoro svolto dal fratello piccolo! Come detto il pomeriggio andai da Alduccio, abitava vicino alla chiesa, in una casa a tre piani. Come al solito incominciava la cantilena per chiamare l’amico, ad alta voce fino ad ottenere una qualche risposta. “Arrivo subito, sto scendendo, attendi qualche minuto…” Mi guardai intorno, si sentiva un profumino veramente eccezionale, profumo di pane appena sfornato. Vidi una coperta che stesa su un tavolo proteggeva qualcosa che mi adescava. Guardai e trovai una cinquantina di pagnottelle color miele, ancora calde. Nell’attesa ne mangiai una, poi un’altra e per completare ne misi in tasca altre due. Quattro su cinquanta, nessuno si sarebbe accorto della sparizione! Infine di li a poco arrivò Alduccio. “Moveus Aldù? ” – Andiamo Alduccio? “Solo un momento devo prima ritirare il cibo dei cani, un lavoretto di cinque minuti, mi aiuti?” – “Ti aiuto volentieri, pur di andare subito a Rio Fradis”. Il lavoro consisteva nel mettere le pagnottelle in alcune ceste per proteggerle dai topi!. Mi venne da vomitare quando capii di aver mangiato le focacce per i cani e ancor più quando vidi il contenitore ove erano state impastate, vi si depositavano i rifiuti di cucina durante la settimana ed infine si faceva un pastone. Era sporco all’inverosimile, mosche e chissà che altro vi avevano soggiornato e ancora vi trovavano ospitalità... Credo che il ribrezzo che ancora manifesto per le mosche sia nato in quella circostanza… Non aggiungo altro! Dalle mie tasche le due pagnottelle ritornarono velocemente e di nascosto al loro posto. Anche quella volta nonna Agatina aveva ragione “ciò che non strozza ingrassa” ma io mi sentii strozzare.

2 commenti:

  1. Da Livorno un saluto a Tonio Palmas e famiglia. Sono Angelo Usai e ho vissut

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  2. cazzate!!!!!!

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